Squid Game: il dramma coreano sotto i riflettori del mondo
Squid Game: il dramma coreano sotto i riflettori del mondo

Parliamo di Squid Game, il dramma coreano sotto i riflettori di tutto il mondo. Più che della trama, proveremo ad approfondire i motivi per cui ha avuto un incredibile presa sul pubblico mainstream e se potrà segnare l’inizio di una rivalsa per il cinema coreano o sarà, come al solito, un luminoso ma fugace attimo di notorietà nel vastissimo panorama occidentale.
Se ne è parlato e si continua a farlo, è la serie più guardata su Netflix (almeno al momento), diventata iconica in brevissimo tempo: ci stiamo riferendo ovviamente a Squid Game, il dramma coreano che dal 17 settembre è disponibile sulla piattaforma, con nove episodi dalla durata di massimo un’ora. Ma perchè ha immediatamente avuto tutto questo successo, e soprattutto, per cosa effettivamente vale la pena vederlo, proverò (in maniera ovviamente non esaustiva e fino a quanto mi compete) a parlarvi di queste motivazioni.

Per quelli che ancora non l’hanno visto: un gruppo di persone ritrovatesi di fronte a debiti insormontabili decidono di partecipare a un gioco, quelli che arrivano alla fine vincono un premio in denaro, i partecipanti che perdono muoiono, e più muoiono, più la cifra sale. Questa è la storia principale.
Innanzitutto, ci tengo a ricordare che questo è un k-drama, in tutto e per tutto, perché come succede con le commedie ne esistono di diversi tipi e sono divisi per categorie, quindi sì, la presenza di violenza e di sangue non intacca la sua natura di k-drama.
Ma perchè Squid Game è diventato un fenomeno internazionale in così breve tempo? Domanda lecita, soprattutto considerando che qui da noi la serie non è stata tradotta in italiano ed era possibile seguirla solo con i sottotitoli e in lingua originale, cosa che, lo sappiamo, è un enorme scoglio per la maggioranza del pubblico occidentale. Solo per questo, necessita sicuramente un riconoscimento.

Ma merita anche tutto questo scalpore? Come sempre, la risposta sta nella maggioranza del pubblico, che per l’appunto è occidentale, ed essendo anche mainstream, basta poco per sorprenderlo e affascinarlo. Questo toglie la bellezza al prodotto? Assolutamente no, semplicemente basta vederlo con un occhio leggermente più critico (e magari meno facilmente impressionabile).
Esempio lampante, la trama: non è assolutamente nulla di nuovo, persone che perdono la vita in giochi sadici e agiscono in maniera cinica e spietata per sopravvivere, è un plot già visto in anime come Deadman Wonderland, Mirai Nikki, oppure nella più recente Alice in Borderland (adattamento live-action dell’omonimo manga, che ha ricevuto meno attenzione, ma vi consiglio di recuperare, o nel caso vogliate leggerne a riguardo trovate qui la recensione. Alcuni elementi che lo compongono come costumi e scenografie, sono molto più vicini al mondo occidentale – o comunque a qualcosa che si ha già visto – che a quello coreano, come le tute rosse e le maschere indossate dalle guardie, i simboli stessi usati come gerarchia (che ricordano palesemente il controller della playstation), la stanza color pastello con le scale sottosopra, o la scelta tra i due quadrati rosso e blu. È un po’ come ritrovarsi qualcosa di familiare anche in un contesto che non conosciamo, e credo sia più confortante per un’audience abituata solo a prodotti americani o anglofoni.

Naturalmente poi c’è la violenza, o l’esaltazione di essa, ma non è solo quello, non è solo brutale: è ben costruita, una morte cinicamente organizzata e premeditata – che in confronto a quello che alcuni dei protagonisti dovrebbero affrontare nella vita vera, sembra quasi venga tolto loro un peso. Cosa che effettivamente spinge le persone a continuare a giocare e a rischiare la vita.
Per parlare di un fattore innovativo, invece, ecco i giochi d’infanzia, che essendo tipici della Corea del Sud (almeno quasi tutti), risultano a noi interessanti e tengono alta la nostra attenzione. Ma la motivazione migliore sta nei personaggi che, anche se incarnano stereotipi, oltre a farci affezionare a loro (chi più chi meno, a seconda delle proprie inclinazioni ed esperienze personali) scoprono un lato diverso, raccontano, ma soprattutto criticano aspramente degli aspetti sociali di un paese che ci pare così distante da noi – ma forse non lo è. Attraverso per esempio Gi-hun, Sang-Woo, Ali, Sae-byeok e Ji-yeong, vediamo quanto sia tristemente comune rivolgersi a usurai e rinunciare alla propria persona, manifestazioni represse nel sangue, sentirsi così costantemente in colpa per aver fallito in una società che però continua a lasciarli ai margini.
Vediamo anche un razzismo velato ma non troppo, lo sfruttamento lavorativo, il sogno coreano infranto, l’impiegato modello che fallisce ma si vergogna troppo per confessarlo, i pregiudizi sulla Corea del Nord e la difficoltà di scappare da essa, la rassegnazione giovanile, di chi sa di non poter competere con i suoi coetanei e si arrende in partenza.
In conclusione, Squid Game è meritevole di una visione, un prodotto non perfetto ma di grande intrattenimento, oltre a essere ricco di spunti e riflessioni da cui poter partire per parlare di Corea del Sud ma non solo. E per quanto mi renda conto che verrà ricordato ai più come un banale survival game, mi auguro possa anche solo invogliare nuove persone a cercare altri drama o film coreani.
Squid Game (오징어게임, 2021), Netflix
Tutte le immagini sono di proprietà Netflix.
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