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Quel che resta del giorno: l’amore di Ishiguro nei confronti della vita

Quel che resta del giorno

L'amore di Ishiguro nei confronti della vita

quel che resta del giorno

Kazuo Ishiguro

Einaudi

1990

4/5

“E forse allora vi è del buono nel consiglio secondo il quale io dovrei smettere di ripensare tanto al passato, dovrei assumere un punto di vista più positivo e cercare di trarre il meglio da quel che rimane della mia giornata. Dopotutto cosa c’è mai da guadagnare nel guardarsi continuamente alle spalle e a prendercela con noi stessi se le nostre vite non sono state proprio quelle che avremmo desiderato?”

È il 1989 quando lo scrittore nippo-britannico Kazuo Ishiguro pubblica il suo terzo romanzo, The Remains of the day e tradotto in Italia due anni più tardi con titolo Quel che resta del giorno, romanzo che afferma ufficialmente la sua celebrità in tutto il mondo. Il successo è tale da segnare anche la realizzazione di un film omonimo nel 1993 diretto da James Ivory (Camera con vista, Maurice) e che vede protagonisti Anthony Hopkins e Emma Thompson.

quel che resta del giorno

Mr. Stevens, maggiordomo di mezza età, ha passato la sua intera vita spinto dalla convinzione di avere l’obbligo morale di rispettare gli ideali legati al suo lavoro rimanendo al servizio di un gentiluomo moralmente discutibile, Lord Darlington, anche a costo di sacrificare la propria vita privata. Quando quest’ultimo viene a mancare, Stevens si ritrova al servizio di un giovane americano che gli concede qualche giorno di riposo per poter percorrere un viaggio in Cornovaglia e visitare Miss Kenton, ex governante di Lord Darlington. I successivi giorni di viaggio in macchina divengono per Stevens l’occasione perfetta per ripercorrere gli anni del suo passato e tirare le somme, tra dubbi e ricordi, della persona che è diventato chiedendosi se non sia forse troppo tardi per avere rimorsi. 

Il viaggio narrato da Ishiguro in Quel che resta del giorno non è, quindi, solo fisico ma diventa il pretesto per costringersi a fare i conti con sé stessi ripercorrendo la propria vita, con tutti i suoi sbagli e le sue gioie. Ovviamente, l’intero racconto è filtrato dalla visione, a volte nemmeno tanto corretta e oggettiva, del protagonista che si fa narratore in prima persona. Il fulcro della storia diventa l’ossessione che Stevens nutre per il proprio ruolo e lavoro, talmente grande da essere arrivato a sopprimere sé stesso in funzione del dovere e degli ideali tradizionali a cui più volte si dichiara legato a vita. Come in una sorta biografia, ripercorre i momenti salienti della sua vita, momenti segnati dalla scelta tra la sua umanità, con tutti i suoi sentimenti più profondi, e la sua responsabilità. Risulta facile capire quale delle due ha quasi sempre vinto questa lotta. Il vissuto di Stevens è infatti ricordato come una pantomima in cui il suo vero Io non ha mai avuto una forza tale da poter sovrastare il proprio ruolo, ed è così che i decenni sono divenuti per lui una sorta di dimostrazione di tutti i sacrifici compiuti, in primis la rinuncia ad una vita tranquilla, piena di quell’amore quotidiano così semplice da essere totalizzante. 

Maggiordomi di minor levatura sono pronti, alla minima provocazione, a metter da parte la loro figura professionale per lasciare emergere la dimensione privata. Per simili personaggi, fare il maggiordomo è come recitare in una pantomima; basta una piccola spinta, ed ecco che la facciata cade scoprendo l’attore che c’è sotto. I grandi maggiordomi sono grandi proprio per la capacità che hanno di vivere all’interno del loro ruolo professionale e di viverci fino in fondo.

La doppia nazionalità dell’autore è l’elemento che più di tutti spicca dalla lettura di Quel che resta del giorno. Da una parte la prosa risente profondamente dell’influenza britannica, con tutta la sua imperturbabilità, incarnata al meglio anche nel ruolo del maggiordomo, e la sua sontuosa eleganza che abbiamo imparato a riconoscere anche in prodotti televisivi come Downton Abbey. Anche le descrizioni dei paesaggi britannici incontrati lungo il viaggio rispecchiano tutto l’amore verso la terra che lo ha accolto e nella quale sente di potersi definire a casa. D’altra parte, invece, Ishiguro rimane comunque legato alle sue terre d’origine e impregna il racconto di riflessioni filosofiche tipiche della letteratura nipponica.

Quella di Ishiguro è una lettera d’amore nei confronti della vita e ancora di più è un invito a non sprecare nemmeno un istante. Steven si ritrova soltanto da anziano a sentirsi libero di poter rivalutare le scelte compiute, con un rammarico quasi angosciante verso quei sentimenti e quell’amore che ha imparato ad esternare solamente al “tramonto” della sua vita, proprio durante quel che resta del giorno. 

Ha scelto un certo percorso, nella sua vita, che si è rivelato un percorso sbagliato; ma era quello che aveva scelto, così almeno può dire. Perché io, invece, non posso nemmeno asserire questo.

Fonti

Quel che resta del giorno, Kazuo Ishiguro, 1990, Einaudi

Valentina Dadda

Studia scienze dei beni culturali ed è innamorata da sempre del cinema e della letteratura, suoi compagni di viaggio da una vita. Affronta le giornate passando da una citazione all'altra e passerebbe ore a parlare di scienza o di femminismo, o di tutte queste cose insieme.

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