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Better Call Saul 6: il capolavoro che chiude un’era

Better Call Saul 6: il capolavoro che chiude un’era

Stagione 6

2022

Disponibile su: Netflix

5/5

What would you do if you had a time machine?

Una domanda che ricorre nell’ultimo episodio della serie, simbolo dei rimpianti che i nostri protagonisti si trascinano dietro. Ebbene, non serve una macchina del tempo per riportarci indietro a nove anni fa, a quel 2013 che sancì la fine di Breaking Bad – la serie universalmente riconosciuta come una tra le migliori mai realizzate. Da quell’ultimo episodio, FeLiNa, che ci lasciò tutti spiazzati per come riuscì a chiudere il cerchio, non passò molto tempo prima che, nel 2015, cominciasse Better Call Saul, uno spin-off prequel con protagonista uno dei personaggi più iconici e caotici della serie madre. Tuttavia i dubbi erano tanti: cosa ci sarà mai da raccontare riguardo un avvocato avido e scapestrato apparentemente poco sensibile e un po’ macchietta?

Invece Vince Gilligan e Peter Gould, che qui affianca appieno il collega in veste di produttore esecutivo, prendono quello che era solo il contorno di un personaggio e riescono in sei stagioni a tramutarlo in una persona vera e propria, con un ricco passato che si disvela davanti ai nostri occhi episodio dopo episodio. E se c’è una cosa che sappiamo dei due creatori da Breaking Bad, è che i loro personaggi sono unici: possiedono una caratterizzazione che è vera forza trainante delle storie che li riguardano. Saul Goodman fortunatamente non è da meno.

Era difficile riuscire a reggere il confronto con la serie madre, per di più con uno spin-off che in larga parte cambia anche il contesto avvicinandosi alle aule di tribunale. Eppure Better Call Saul riesce non solo ad eguagliare Breaking Bad, ma addirittura a superarla in qualità, forte dell’esperienza di Gilligan e Gould sul campo. Certo, Better Call Saul non sarebbe il capolavoro che è senza Breaking Bad ma, come realizziamo negli ultimi episodi, in realtà, senza Saul tutte le vicende di Breaking Bad non sarebbero mai neanche esistite.

A nove anni da quel settembre 2013 ci ritroviamo quindi a commentare la fine del nostro viaggio ad Albuquerque: it’s all gone. Saul gone.

LA RECENSIONE CONTIENE SPOILER

Così si completa la metamorfosi

Con la sesta stagione uniamo finalmente tutti i puntini: per tutto questo tempo abbiamo aspettato con impazienza di veder ricomparire Saul Goodman davanti ai nostri occhi, di assistere alla trasformazione finale di Jimmy McGill. Eppure, quando quel momento arriva, vorremmo solo poter vedere il personaggio regredire al suo stadio iniziale. La potenza della serie è tutta qui: l’incredibile capacità di rendere attraverso dialoghi, immagini e grandi interpretazioni degli attori la lenta metamorfosi di un personaggio che cresce nel corso delle stagioni adottando man mano quelle caratteristiche che tutti noi conosciamo.

La sfida di un prequel sta nel riuscire a rendere una storia interessante nonostante di questa storia si sappia già la fine: Better Call Saul riesce perfettamente nell’impresa, andando addirittura oltre.

“It wasn’t me, it was Ignacio”

“Didn’t Lalo send you?”

Da quei due nomi presi a caso e gettati nel mezzo di un dialogo in un episodio di più di dieci anni fa nascono due personaggi in carne e ossa e colonne portanti delle vicende che vanno a costruire quel piccolo universo di Albuquerque che conosciamo così bene. E nella costruzione di queste vicende arriviamo a comprendere appieno il terrore di Saul nel pronunciare quel nome, arriviamo a vedere con occhi nuovi una scena che all’inizio poteva anche strapparci un sorriso ma che ora ci porta alla mente solo tutti i traumi e rimpianti del personaggio.

E, specialmente negli ultimi episodi, con pochi ma azzeccati flashback, chiudiamo il cerchio anche con tutti gli altri personaggi che hanno trovato spazio nelle vicende di Saul Goodman e che si ricompongono davanti ai nostri occhi. Ora sappiamo come Mike ha cominciato a lavorare per Gus, come Gus abbia deciso di vivere nella sua composta solitudine, sappiamo che fine ha fatto Kim e per quale motivo non sia mai comparsa in Breaking Bad. E, cosa purtroppo non scontata, tutto torna alla perfezione, come in un perfetto puzzle.

Le tre facce di Jimmy McGill

One day we’ll wake up and brush our teeth, and we’ll go to work. At some point, we’ll suddenly realize that we haven’t thought about it at all.

Quella scena spiazzante che divide la stagione a metà è anche in un certo senso la chiusura della prima parte della stagione stessa. Da quel momento, dopo una frenetica corsa verso la fine di un eccitante progetto, la serie incomincia una sua parte quasi catatonica, in cui tutto scorre più lento. Salutiamo i personaggi più strettamente legati al contesto del cartello, che trovano la loro chiusura in scene che li ricollegano a ciò che abbiamo già visto di loro in Breaking Bad, e ci concentriamo interamente su Jimmy/Saul/Gene e su Kim, protagonisti assoluti soprattutto degli ultimi episodi.

La rottura tra i due è evidente e sentita nella totale assenza di Kim nei due episodi successivi, cosa che quasi ci fa temere il suo definitivo saluto alla serie. Intanto, dopo cinque stagioni di attesa, vediamo finalmente approfondite le vicende in bianco e nero, che ci ricollegano a un presente post Breaking Bad spento e malinconico per Gene Takavic, ormai costretto a nascondere ogni aspetto di Saul Goodman dentro una scatola in un armadio e troppo preso dai rimorsi per tornare nei panni di James McGill. Tre veri e propri alter ego che rappresentano le tre fasi di evoluzione dello stesso personaggio e, cosa incredibile, tre personaggi completamente distinguibili tra loro, anche grazie alla potentissima interpretazione di Bob Odenkirk.

A illuminare il grigiume di quella vita sono gli sprazzi di colore del passato di Saul, simbolicamente visti attraverso il riflesso nelle lenti di Gene. E l’attrazione per quella vita non è scomparsa, lo vediamo nella dedizione di Gene per quelle truffe che lo hanno sempre divertito – perché, come sottolineato da Walter White, lui in fondo è sempre stato così – ma nel disegno manca Kim, e non è la stessa cosa.

Come simboleggia anche la lenta autodistruzione della sigla nel corso delle stagioni, quasi completamente scomparsa negli ultimi episodi, Gene si scava lentamente la fossa da solo – fenomenale in questo senso un preciso fotogramma dell’undicesimo episodio – verso quel finale alla fine ovvio, ma non scontato, e che il Jimmy che è ancora in lui va quasi appositamente a cercarsi.

Better Call Saul: Bob Odenkirk e Rhea Seehorn in una scena della serie

Una sigaretta condivisa e la fine di un viaggio

Visto il finale perfetto di Breaking Bad, le aspettative per quello di Better Call Saul non erano da meno. E infatti Peter Gould, qui sia alla scrittura che alla regia, ci regala degli ultimi impeccabili 70 minuti nel finale di serie, accompagnandoci per mano nel viale dei ricordi. Un ultimo episodio ultra citazionista che chiude perfettamente il cerchio e ci dà la possibilità di salutare un’ultima volta tutti i personaggi che ci hanno accompagnato fin qui, perfino con qualche incredibile cameo.

Tutto si conclude esattamente come e dove doveva: per colpa di un’anziana signora, troppo sveglia per essere truffata, e in un’aula di tribunale, dove Saul cerca di fare la sua magia per un’ultima volta.

Quel bianco e nero simbolo delle scene ambientate nel presente – un presente grigio e piatto in cui Jimmy, con lo pseudonimo di Gene, vive privo della scintilla di vita che caratterizzava la sua precedente vita come Saul Goodman – va purtroppo a caratterizzare anche la vita di Kim, intrappolata tra i rimorsi del passato. Una Kim consapevole di tutto il male che ha procurato e che vive una vita spenta, lontana dalla professione a cui aveva dedicato tutto; una vita semplice in cui non riesce a prendere posizione neanche sulle questioni più irrilevanti. È la chiamata di Gene a sbloccarla, a permetterle di riprendere le redini del suo presente. E a cascata arriva anche la decisione di Jimmy di assumersi le proprie responsabilità, di appendere per un’ultima volta la divisa di Saul Goodman al chiodo e affrontare faccia a faccia i suoi rimorsi: “The name’s McGill, I’m James McGill”. Non gli serve una macchina del tempo, come specifica Chuck non c’è nessuna vergogna nel tornare indietro sui propri passi e cambiare il proprio destino.

E in quella cella, durante quell’ultimo saluto a Kim e a tutto ciò che c’è stato e c’è ancora tra di loro, è lo sprazzo di colore nella fiamma di una sigaretta condivisa come ai vecchi tempi a mostrarci il ritorno alla vita dei due personaggi.

E io, cosa farei se avessi una macchina del tempo? Tornerei indietro a quel pomeriggio di tanti anni fa in cui decisi di cominciare a guardare Breaking Bad: un’occasione per godersi nuovamente tutto da capo, con occhi diversi. Ma senza rimpianti.

Fonti

Better Call Saul (Id., 2022), AMC

Tutte le immagini appartengono ai legittimi proprietari.

Gaia Galimberti

Laureata in Scienze dei Beni Culturali all'Università degli Studi di Milano, è cresciuta fantasticando mondi attraverso i libri e, dopo essersi innamorata del cinema, fatica a trovare il tempo per correre dietro a tutte le sue passioni. Sogno nel cassetto: scrivere un libro.

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